Passaggio generazionale di impresa

In Italia, l’83% delle imprese è a conduzione famigliare e l’85% delle imprese familiari scompare dopo la terza generazione. La staffetta tra una generazione all’altra è sempre stata un passaggio delicato soprattutto per gli imprenditori con un minimo di lungimiranza. Un percorso di cinque tappe per affrontare questa fase con le giuste armi e consapevolezza a cura dell’avvocato Marco Ribaldone di LS Lexjus Sinacta
In passato, il tema del passaggio generazionale di impresa è stato discusso in numerose occasioni ed è stato esaminato sotto svariati punti di vista. Questo non lo ha di sicuro reso meno attuale.
Si può dire, anzi, che il problema della tutela del patrimonio famigliare e, in questo più ampio contesto, lo specifico argomento della continuità dell’impresa familiare, intesa come componente dinamica del patrimonio familiare, sono (o dovrebbero essere) sempre più all’ordine del giorno per qualsivoglia imprenditore che abbia degli eredi ed un minimo di lungimiranza. I dati resi noti in un recente passato ed ancora attualissimi sono quanto mai signifi cativi: in Italia, l’83% delle imprese è a conduzione famigliare e l’85% delle imprese famigliari scompare dopo la terza generazione. Il tema è, quindi, molto attuale e di assoluto rilievo. Questi due dati di fatto inducono a proseguire nella disamina del fenomeno. E’ possibile individuare cinque regole base destinate a presiedere il tema. In sintesi, sono queste: avere piena consapevolezza
1.dell’esistenza del problema e della necessità di affrontarlo con adeguate risorse (materiali e psicologiche) e decidere di affrontarlo seriamente;
2.avere chiarezza in merito agli obiettivi perseguiti;
3.avere piena consapevolezza delle dinamiche psicologiche presenti ed operanti all’interno della famiglia;
4.avere piena consapevolezza della realtà aziendale e del mercato in cui questa si colloca;
5.individuare il / i professionista / i cui affi dare la gestione della pratica e lavorare insieme a lui / loro, fornendo piena collaborazione.
Proviamo ad analizzarle una alla volta.
La prima regola – avere piena consapevolezza dell’esistenza del problema e della necessità di affrontarlo con adeguate risorse (materiali e psicologiche) e decidere di affrontarlo seriamente
Può sembrare assurdo, ma tutto comincia da qui. L’Italia è un Paese caratterizzato dall’esistenza di un grande numero di imprese piccole e medie. La stragrande maggioranza di queste sono state create nel corso di qualche decennio da un solo imprenditore, il quale, non potendo contare su alcun patrimonio né su risorse fi nanziarie di qualche genere, privo di signifi cative relazioni sociali e spesso di cultura (non solo imprenditoriale), partendo dal nulla e contando essenzialmente sulla sua intelligenza, sulla sua forza, sul suo intuito, sulla sua capacità di sacrifi cio e sul suo amore per il rischio, ha creato e fatto crescere, spesso fi no ad un livello notevole, un’impresa. Troppo spesso quest’uomo non si pone il problema della continuità dell’impresa dopo la sua scomparsa. Anche se ha dei figli e questi ultimi sono intenzionati a proseguire l’attività, subentrando al padre, il fondatore continua imperterrito a tenere saldamente in mano il timone dell’azienda, apparentemente senza comprendere (e, comunque, senza preoccuparsene) che, data la sua mortalità, ad un certo punto l’impresa si troverà davanti ad un bivio: la gestione da parte di un altro imprenditore o la scomparsa. Ecco, quindi, perché la prima regola ha proprio a che vedere con una presa di coscienza e con un atto di volontà. L’imprenditore deve:
•afferrare ed accettare il concetto che la sua azienda potrà sopravvivergli;
• capire che, nell’interesse dell’impresa e di coloro che, in quanto figli dell’imprenditore che l’ha creata, saranno chiamati ad assicurarne la continuità, il relativo passaggio di mano può e deve essere preparato per tempo e con cura;
• adottare, nel suo intimo e con autentica convinzione, la decisione di pianifi care quel passaggio e di assecondarlo con il meglio di quelle stesse capacità, che hanno consentito all’azienda di nascere e di prosperare.
La seconda regola – avere chiarezza in merito agli obiettivi perseguiti
Finora si è sempre genericamente parlato di “tutela del patrimonio”, di “continuità dell’impresa”, di “passaggio delle leve del comando nelle mani dei figli” e di altri concetti analoghi, altrettanto vaghi. In concreto, invece, il tema deve essere aff rontato con l’individuazione di obiettivi molto precisi e circostanziati. In particolare, l’imprenditore deve capire se la futura gestione dell’impresa può essere affidata a tutti i suoi fi gli o se, invece, solo uno di essi ha le capacità imprenditoriali per poter effi cacemente subentrare al padre. Nel primo caso, deve capire se e come la gestione può essere suddivisa tra i figli in base alle loro specifiche caratteristiche ed attitudini; nel secondo caso, come si possono escludere i fi gli inadatti dalla gestione dell’impresa senza ledere i loro diritti e, ove possibile, senza necessariamente separarli dalla titolarità del patrimonio aziendale. Un individuo conosce i propri figli ed un imprenditore conosce la propria azienda. In astratto, l’individuo – imprenditore ha, quindi, in mano tutte le carte necessarie per compiere le scelte migliori.
La terza regola – avere piena consapevolezza delle dinamiche psicologiche presenti ed operanti all’interno della famiglia
Benché l’azienda sia solo un “ .. complesso di beni e servizi organizzati dall’imprenditore per l’esercizio dell’impresa” 4, quando essa costituisce parte integrante del patrimonio di una famiglia risulta impossibile esaminarla senza tenere nella dovuta considerazione gli elementi psicologici ed emotivi che – per così dire – le ruotano intorno. L’imprenditore, il quale correttamente si ponga il duplice obiettivo di assicurare la continuità dell’azienda e, al tempo stesso, garantire la sua esistenza all’interno del patrimonio famigliare, deve individuare i possibili ostacoli sulla strada della realizzazione di tale obiettivo e prepararsi ad affrontarli per tempo. E’ possibile – lo si dice a mero titolo di esempio – che uno dei fi gli sia inadatto a subentrare al padre per il suo carattere eccessivamente sensibile ed il suo scarso senso della realtà ed è possibile che questo fi glio venga percepito come il più debole e, quindi, come quello maggiormente bisognoso di tutela. In un simile contesto, appare tutt’altro che irrealistico che la madre si opponga al solo concetto teorico della sua esclusione dalla gestione dell’impresa paterna o che lo stesso padre imprenditore non abbia il coraggio di adottare una decisione apparentemente molto dura, ma di sicuro beneficio per l’azienda. Se davvero l’imprenditore vuole realizzare l’obiettivo del passaggio generazionale di impresa deve prevedere il possibile verificarsi di situazioni come quella dianzi accennata e giocare d’anticipo, individuando gli strumenti più idonei per “disinnescare” l’esplosione di gravi conflitti interni alla famiglia, potenzialmente idonei a distruggere non solo l’impresa, ma anche la serenità della famiglia che, da quell’impresa, ha sempre tratto il proprio benessere.
La quarta regola – avere piena consapevolezza della realtà aziendale e del mercato in cui questa si colloca
E’ possibile che, per assicurare la continuità dell’impresa, debbano essere adottate decisioni importanti: separazione di rami d’attività, ingresso in nuovi mercati, trasformazione di settori dell’azienda, ecc. Per l’imprenditore, adottare ed eseguire tali decisioni prima di passare la mano e, al tempo stesso, farlo insieme al figlio designato al subentro, può costituire un’arma importante per garantire non solo il buon esito del 38 passaggio generazionale, ma anche la prosecuzione della vita dell’impresa. Questo, sotto un duplice profilo: si può rafforzare l’impresa, posizionandola • meglio nel / i mercato / i di riferimento o addirittura aprendo nuovi settori di attività e, quindi, dando all’impresa nuove chanche di crescita e sviluppo; • consentire al futuro gestore dell’azienda di maturare sul campo una concreta esperienza di valore inestimabile. L’imprenditore deve, quindi, guardare al passaggio generazionale non solo come ad un’inevitabile evoluzione della vita, ma anche e soprattutto come ad una grande opportunità per dare nuovo slancio all’impresa e, dopo averla creata, contribuire signifi – cativamente anche ad assicurarle una vita lunga e prospera.
La quinta regola – individuare il / i professionista / i cui affidare la gestione della pratica e lavorare insieme a lui / loro, fornendo piena collaborazione
Nessun imprenditore, per quanto capace nel suo lavoro, esperto del suo settore di attività e conoscitore della sua famiglia, ha le competenze per affrontare da solo e compiere con successo una svolta epocale come il passaggio generazionale di impresa. In primo luogo, egli potrebbe essere troppo coinvolto emotivamente per avere la necessaria lucidità di analisi e la necessaria capacità decisionale. Potrebbe, per esempio, non accettare l’idea che un certo settore dell’azienda, da lui così faticosamente creata negli anni, debba essere dismesso o addirittura chiuso. Ed ancora: sul fronte dei rapporti interni alla famiglia, potrebbe non accorgersi delle scarse capacità imprenditoriali di un fi glio o di una fi glia oppure, accortosene e, quindi, consapevole del problema, potrebbe non avere la forza ed il coraggio di decidere, benché a fin di bene, la sua esclusione dalla gestione dell’impresa. In secondo luogo, ben diffi cilmente l’imprenditore è in possesso di quel bagaglio di conoscenze tecniche che appare, invece, indispensabile per gestire al meglio situazioni spesso complesse e sempre delicate, magari attraverso scelte originali ed innovative. Da qui sorge la necessità che l’imprenditore si rivolga a dei professionisti preparati ed esperti dello specifi co tema del passaggio generazionale di impresa. Da un lato, potrebbe essere richiesto l’intervento di uno psicologo, chiamato a comprendere le già citate dinamiche psicologiche della famiglia e a suggerire all’imprenditore come gestirle. Dall’altro lato, è sicuramente necessario l’intervento di consulenti nel settore giuridico (avvocati) e nel settore economico ed aziendale (commercialisti). Dopo aver capito quali fi gure professionali devono comparire sulla scena ed avere concretamente individuato i professionisti, chiamati a ricoprire quei ruoli, l’imprenditore deve impegnarsi a collaborare effi cacemente con loro. “Collaborare” non è inteso qui come la supina accettazione di tutte le indicazioni e di tutti i suggerimenti che provengono dai professionisti; esso non signifi ca, però, neanche che i professionisti devono essere relegati al ruolo di meri esecutori di quanto l’imprenditore ha già deciso per conto suo. Se è vero che i professionisti sono chiamati ad aiutare l’imprenditore a raggiungere i suoi obiettivi, è altrettanto vero che essi hanno interesse a che questo avvenga nel migliore dei modi, anche quando ciò signifi ca deviare dal percorso che l’imprenditore aveva in mente. Come spesso nella vita, è consigliabile optare per una equilibrata via di mezzo. L’imprenditore deve chiarire ai professionisti quali sono i suoi obiettivi di carattere generale, ma deve anche ascoltare e seguire i loro suggerimenti, talvolta accettando – quando occorre – di rettifi care certe sue posizioni e di modifi care le strategie che aveva in mente; per parte loro, iprofessionisti devono agire per conseguire gli obiettivi dell’imprenditore e, quindi, individuare gli strumenti tecnici più effi caci a questo scopo, anche qualora si trovino a non condividere certe scelte di fondo compiute dal loro assistito. Può comunque dirsi che, di regola, quando i professionisti coinvolti sono seri, capaci ed esperti, il problema non si pone o viene, comunque, risolto agevolmente. Per meglio comprendere l’importanza del ruolo e dell’intervento dei professionisti, appare opportuno riferire di un paio di casi, concretamente accaduti, nei quali l’assenza dell’esperto, con conseguente gestione “faida- te” della pratica, ha provocato (o avrebbe potuto provocare) disastrose conseguenze, laddove il tempestivo coinvolgimento dei professionisti adatti avrebbe potuto garantire (o ha garantito) all’imprenditore il conseguimento di tutti gli obiettivi, che egli si era prefi ssato. Il primo caso riguarda un imprenditore con tre fi gli, uno solo dei quali intenzionato a subentrare al padre ed in possesso delle necessarie capacità. L’imprenditore pianifi ca la divisione del suo patrimonio in modo tale da lasciare l’impresa a questo fi glio senza ledere i diritti degli altri due. Decide di formalizzare le sue decisioni e, a tal fine, chiede ai figli di sottoscrivere una scrittura privata, con la quale si impegnano, ora per allora, a dividere il patrimonio ereditario in conformità ai desideri del padre. Alla morte dell’imprenditore emerge che la scrittura privata, in quanto patto successorio, è nullo ex art. 458 cod. civ., e che, pertanto, si deve dar corso alla successione legittima. La conseguenza è che tutti i fi gli ereditano in parti uguali l‘impresa. E’ intuibile la conseguente esistenza di potenziali confl itti sulla proprietà e sulla gestione dell’azienda. E’ altrettanto intuibile il duplice rischio che l’impresa non solo non vada al fi glio che la saprebbe gestire, ma addirittura non sopravviva e che l’armonia famigliare risulti compromessa per sempre. In altre parole, l’imprenditore ottiene esattamente il risultato che si era prefi ssato di evitare. Cosa avrebbe potuto fare in alternativa l’imprenditore? Un professionista competente gli avrebbe potuto suggerire di ricorrere al patto di famiglia, previsto dagli artt. 768 bis e seguenti cod. civ. Si tratta, in sostanza, di un contratto, stipulato tra l’imprenditore e tutti coloro che sarebbero suoi eredi legittimari se egli morisse in quel momento. Attraverso di esso l’imprenditore può legittimamente disporre dell’azienda a favore del fi glio designato a succedergli nella gestione ed attribuire agli altri beni in misura tale, da soddisfare la loro quota di eredità. L’eventuale divisione così convenuta non sarebbe stata sindacabile da parte di coloro, che avessero partecipato al patto di famiglia: l’impresa sarebbe risultata di proprietà del figlio, chiamato a subentrare al padre nella sua gestione, e i diritti degli altri figli sarebbero stati soddisfatti. In questo modo, l’azienda sarebbe rimasta in famiglia ed avrebbe proseguito la sua vita e l’armonia famigliare sarebbe stata preservata. Il secondo caso riguarda un imprenditore con due fi gli legittimi ed un terzo fi glio naturale, nato da una relazione extraconiugale e mai riconosciuto dal padre. L’imprenditore aveva l’obiettivo di trasferire l’impresa ad uno dei figli legittimi e di assegnare altri beni all’altro. Il fi glio naturale non riconosciuto era escluso da qualsiasi partecipazione al patrimoni ereditario. Al contempo, l’imprenditore aveva il desiderio di creare un meccanismo abbastanza flessibile da consentire in futuro, di fronte alle eventuali fondate rivendicazioni del fi glio naturale, il mantenimento dell’obiettivo prefissato. I professionisti incaricati di seguire questo passaggio suggerirono all’imprenditore di istituire un trust, in cui segregare il patrimonio per poterne disporre in base ai suoi desideri. In sostanza: l’intero patrimonio dell’imprenditore
• venne segregato e divenne così proprietà di un trustee, soggetto terzo ed operatore professionale;
• l’imprenditore, in veste di guardiano del trust, si riservò la nomina dell’amministratore dell’impresa e potè, così, designare il figlio da lui prescelto;
• quali benefi ciari del trust (e cioè del reddito derivante dal patrimonio segregato) furono indicati i figli dell’imprenditore. Il che facilita enormemente le cose nell’ipotesi di accertamento dell’esistenza di un terzo fi glio, che semplicemente si aggiunge agli atri.
Questa soluzione, cui certamente l’imprenditore non sarebbe mai giunto da solo, consentì il perseguimento di tutti gli obiettivi:
• il patrimonio famigliare è preservato;
• la continuità aziendale nel passaggio generazionale è assicurata, attraverso l’affidamento della gestione dell’azienda al figlio a ciò designato;
• la flessibilità e la variabilità delle posizioni beneficiarie previene il rischio che il meccanismo “salti” e che, di conseguenza, gli obiettivi dell’imprenditore sfumino, per effetto dell’iniziativa del terzo figlio.